Antonio Scurati, un barbagianni e la moglie
In 24 Giugno 2015 da redazioneAnticipiamo, tratto da La Stampa.it, l’incipit del nuovo libro di Antonio Scurati
Prima che il barbagianni canti mia moglie scoppia a piangere
Nel nuovo romanzo un marito in cerca della propria verità di uomo
“Ieri mattina, all’improvviso, mia moglie è scoppiata a piangere in cucina. Erano le dieci in punto. Lo so perché l’orologio canoro da parete, che teniamo affisso giusto di fianco alla cappa ad aspirazione forzata, aveva appena segnato il tempo riproducendo il canto masterizzato del picchio rosso maggiore. Un verso inconfondibile, pressoché identico a una risata prolungata.
In quel preciso istante, come se si fosse convenuto un segnale con un regista occulto, Giulia ha erotto in un pianto convulso. Per lunghissimi secondi sarebbe stato del tutto inutile chiedergliene ragione. D’altronde, io mi sono guardato bene dal farlo. La mia mente, dapprima indecisa tra le due diverse linee ritmiche offerte dal pianto e dal picchio, ha poi subito optato per la seconda. Mi sono dunque sintonizzato con il suono emesso dal becco a scalpello mentre, per delimitare il territorio, tambureggiava sui rami morti.
Giulia, intanto, singhiozzava di quell’apnea che avevo sempre ritenuto appannaggio esclusivo dell’infanzia. Avete presente quando i bambini piangono fino a farsi mancare il fiato, gettando i genitori in un breve intervallo di colpevole terrore? Io quell’apnea ricattatoria l’avevo osservata più volte in Anita, la nostra bambina di tre anni, e mi era sempre parsa una versione embrionale e benigna del suicidio dimostrativo: il mondo – cioè mia madre e mio padre – è stato crudele con me e io lo ripago togliendomi ostentatamente la vita polmonare per autosoffocamento.
Ma Giulia è una persona seria, lo è sempre stata, e io l’ho amata anche per questo. Non stava recitando, purtroppo. Tra i due quello melodrammatico sono io. Ancora qualche attimo di pianto sincopato e poi, stremata, ha detto: «Forse non mi piacciono gli uomini».
La cucina a un tratto si è riempita. L’aria era così pregna di significati reconditi, probabilmente destinati a non cedere mai del tutto il proprio enigma, che sembrava non esserci più posto per noi due. Ci si muoveva a stento in quell’ambiente addensato dal senso arcano delle nostre esistenze e io rimanevo immobile, come si consiglia a chi in mare aperto dovesse imbattersi in uno squalo. Mi fingevo ente inanimato – boa, tronco cavo, relitto – per scoraggiare l’attacco mortale.
Ora anche io respiravo a fatica. Non muoverti, non fiatare se ti riesce, mi ripetevo. Adesso l’unica cosa da fare era pensare. L’ho fatto. La prima cosa che ho pensato è stata: grazie a Dio finalmente mi parla. Anche il secondo pensiero mi ha portato grande sollievo: grazie a Dio sono innocente.
Mi appariva infatti chiarissimo che l’ammissione di mia moglie, simile a un solenne segno della croce tracciato nell’aria asfittica della nostra cucina tramite la violenza sonora di sole sei parole – «Forse non mi piacciono gli uomini» –, mi assolveva da ogni mia colpa di padre infedele. Passata, presente e futura. Indulgenza plenaria. Soltanto al terzo pensiero mi sono riscosso da quel miraggio, chiedendomi che cosa Giulia avesse davvero inteso dire. Mi sono concesso un breve giro di ipotesi.
Prima ipotesi. Se non gli uomini, a Giulia piacevano forse le donne? L’ho scartata subito. E non per un malinteso orgoglio virile, ma perché quella tesi romanzesca mal si accordava al realismo domestico delle crisi coniugali. Per una volta avrei cercato di essere anch’io una persona seria; non mi sarei perciò rifugiato nel colpo di teatro. Avrei accettato di fare i conti con la banale prosaicità della vita di tutti i giorni, quella che scorre per capillarità dal cuore di un universo annoiato nella moltitudine delle nostre quotidiane insoddisfazioni.
Seconda ipotesi. Giulia aveva forse confessato la propria misantropia? Non le andava a genio l’umanità? Ho subito scartato anche questa. Serietà, ci voleva serietà. E nessuna sarcastica autoindulgenza.
Accantonato dunque anche il sarcasmo – questa malattia pandemica dello spirito contemporaneo – ho provato finalmente comprensione per quella donna che piangeva in cucina, la donna che un tempo avevo amato e alla quale avrei sempre voluto del bene. Allora mi sono alzato e l’ho accarezzata. Le ho accarezzato il volto come fanno le madri, non il capo come fanno i padri.
Illuminato di rimbalzo dalla pietà di quel gesto, ho trovato risposta all’interrogativo di prima: piangendo, dubitando di sé, generalizzando, Giulia mi aveva inequivocabilmente comunicato che non le piaceva più l’uomo che le sedeva di fronte nella nostra cucina. Questo qui. Sì, proprio questo qui. Come darle torto?
Era il 30 settembre dell’anno 2011. Indossavamo ancora magliette estive a maniche corte a causa del persistere fuori stagione sul Settentrione d’Italia di un’area di bassa pressione africana, il presidente del Consiglio era inquisito con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione minorile, e il differenziale tra titoli di Stato e bund tedeschi aveva sfondato il tetto dei cinquecento punti. Entro pochi minuti, scandendo l’undicesima ora antimeridiana, il barbagianni avrebbe dato il cambio al picchio rosso maggiore sul quadrante del nostro orologio da muro.
In quel momento mia moglie Giulia e io ci conoscevamo da otto anni, ci amavamo da sette (sette io, a dire il vero, e sei lei), eravamo fidanzati ufficialmente da cinque, sposati da quattro, madre e padre di nostra figlia da tre. Ora, però, non c’era più niente da fare. Tutto era già accaduto e il nostro scopo lo avevamo mancato. In quanto moglie e marito, non ci rimaneva che decidere se vivere o morire per qualcosa in cui, comunque, non credevamo più.”
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